Certi sogni viaggiano con un battito d’ali, improvvisi sobbalzi che tengono con il fiato sospeso e che poi ridisegnano la rotta verso la felicità. Stefano l’ha trovata tra le pieghe di un destino inimmaginabile, nascosta nell’ultimo luogo in cui, da ragazzo, avrebbe pensato di andare: il continente africano.
Niente a che vedere, insomma, con i colori e i profumi di Pieve di Cento, il paese nella campagna bolognese in cui “Steppa” cresce, alto, forte e risoluto. Gli amici lo chiamano così, primo dei sei figli della famiglia Tassinari: dopo di lui Gabriele e Sonia, vigile del fuoco e assistente amministrativa in un polo scolastico, hanno festeggiato le nascite di Enea, Mattia, Lorenzo, Elena e Giovanni. All’amore non si mettono confini.
Tra le mura di casa vige un’educazione tradizionale, improntata ai principi del buon vivere comune e della religione cattolica, sempre con grande equilibrio e buon senso. Così è più facile per Steppa esplorare se stesso e il senso della vita.
Che cos’è la felicità?
La domanda germoglia nel silenzio, facendosi strada tra i mille interrogativi dell’adolescenza.
“La felicità è accontentarsi”. Ma come? E i sogni? E la voglia di avventura?
“Steppa” ha quindici anni e durante l’intervallo risponde candidamente a uno dei leader della classe.
Nella succursale di Castel Maggiore del liceo scientifico “Copernico” c’è spazio anche per questo.
“Chi desidera troppo, non assapora mai pienamente quanto sta vivendo nel momento presente”.
E in questa ricetta gustosa spunta un ingrediente dal sapore inconfondibile: Dio.
“La felicità è essere capaci di rispondere alla vocazione, quella chiamata spirituale a fare della tua vita un programma che Qualcuno ha già fatto”.
Pierdomenico Memeo, razionale com’è, non ci pensa neanche. E’ il più basso di tutti, ha i capelli lunghi e vederlo accanto a Steppa, che viaggia oltre il metro e novanta di altezza, fa un certo effetto.
Però non è certo il tipo da tirarsi indietro.
“E’ la scienza che fa progredire il mondo. L’uomo è padrone del proprio destino”.
“Va bene la scienza, ma in ognuno di noi c’è un aspetto spirituale che può e che deve convivere con quello razionale”.
Il dibattito si infervora durante l’intervallo, davanti ai compagni e alle compagne di classe, spesso stupiti e più attratti dai dubbi amletici su quali giocatori schierare al fantacalcio o con quale ragazzo uscire la settimana successiva.
Il professor Casarini, però, ha capito tutto: “Tassinari, a te la filosofia non piace studiarla, a te piace farla”.
Steppa non lascia, raddoppia. Dopo il diploma si iscrive alla Facoltà di Filosofia all’Alma Mater felsinea e al Corso di Teologia presso il Centro Studi Domenicano.
La storia del pensiero umano è un richiamo forte. Ma “la voce” che lo vuole condurre alla felicità ha altri progetti.
“Teresa ha chiesto una mano per costruire una stalla nella sua missione in Kenya”.
Sonia riporta la battuta della cugina suora senza darle troppo peso. Gabriele, Steppa ed Enea però sono estremamente seri. “Ci pensiamo noi”.
E’ il 1998. Stefano ha appena concluso il suo primo anno all’Università e per la prima volta esplora un Paese diverso dall’Italia. L’Africa rurale è un mondo nuovo, i paesaggi si distendono all’orizzonte fuori dalla portata dello sguardo, la vita cambia passo. Ha un ritmo più lento, in cui il tempo non ti corre addosso ma ti accompagna alla scoperta di te stesso. Perché là sei tu il diverso, sei tu l’uomo che deve essere accolto. E là, chi con niente sa di avere tutto, spalanca cuore e anima in un abbraccio che trasforma per sempre.
Steppa ripensa alla felicità. Sta godendo pienamente della nuova esperienza, però sente che vuole di più. Non parla, cerca solo di ascoltare. Ora c’è bisogno di ascoltare…
“La voce” lo riporta in Kenya l’anno dopo e in quello successivo lo sorprende durante una riunione con gli amici di Azione Cattolica.
“Scusate ragazzi. Vado un attimo all’Università e arrivo”. La Betta e “Panino” salutano senza farci troppo caso, lo rivedranno al prossimo incontro. Ma Steppa, spinto da un’attrazione magnetica, si dirige spedito verso la stazione ferroviaria.
Sa cosa deve fare, è il momento. Sale sul primo treno per Padova e punta dritto alla sede dei Padri Comboniani.
Driin. Il campanello ha l’effetto di uno schiocco di frusta.
“Buonasera. Mi chiamo Stefano Tassinari e voglio fare il missionario. Voi chi siete?”.
Padre Mosè Mora, in piedi davanti al portone aperto, non si scompone. “Prego, accomodati, facciamo due chiacchiere”.
Steppa è convinto. Rocciosamente deciso. Diventerà un Padre, un prete, non un Fratello, un frate.
Ora conosce se stesso. Socrate, uno dei suoi riferimenti filosofici, aveva ragione: la felicità nasce dalla conoscenza di ciò che si è, non da ciò che si ha, e Stefano sa esattamente chi è e chi vuole diventare. O almeno pensa di saperlo, perché “la voce”, gira e rigira, lo rimanda ancora nello stesso posto: in Kenya.
Deve frequentare lo Scolasticato di Nairobi, però non conosce bene la lingua inglese, così è costretto a studiarla al Combonian Brothers Center: è lì che formano i frati.
Che sia un segno della Provvidenza? Sì perché quella è “la voce”, chiamiamola con il suo nome.
Parla a Stefano durante il giorno, gli si contorce nello stomaco quando, prestando servizio nella baraccopoli di Kibera, la seconda più grande di tutta l’Africa, vede uno strano rituale di quei bambini magrissimi.
Con occhi spenti vagano per la strada sterrata svuotati di ogni speranza. Ogni tanto si avvicinano a un bidone della spazzatura, sollevano il coperchio e ingoiano i rifiuti per calmare la fame.
Dio, perché lo permetti? Dove sei? Cosa posso fare per loro?
Steppa va in crisi. Tutto è in discussione, anche il sonno perché di notte non dorme più. Dopo tre anni a Nairobi, il suo formatore lo prende da parte e lo guarda dritto negli occhi.
“Stacca la spina, vai qualche tempo nella nostra missione in Sud Sudan. Hai bisogno di capire se la tua vocazione è veramente diventare un Frate Comboniano”.
Stefano accetta, cos’ha da perdere? Le sue certezze sono andate in frantumi, la sua vita è allo sbando e la felicità… la felicità… non si ricorda nemmeno più perché si poneva certe domande…
Con lo sguardo chino, raggiunge la Comunità di Lomin, nel villaggio di Kajo Keji, dove trascorrerà il suo periodo di riflessione.
Ad accoglierlo è una suora comboniana etiope con la pelle d’ebano, il sorriso lucente e due occhi caldi e accoglienti.
“Ciao, io sono Hundetu”.
“Ciao, io sono Stefano. Hundetu… che nome difficile… mi sa che non lo ricorderò…”.
“No… sono sicura che te lo ricorderai…”.
Forse perché ora l’aria è più leggera e le nuvole in cielo sembrano sorridere mentre i due aiutano i ragazzi della missione. O forse perché la sera, davanti al fuoco, le voci tessono racconti che guariscono le ferite del passato e incoraggiano le emozioni ad acquisire nuovo vigore…
“Sai, non è un gran periodo per me”.
“Neanche per me”.
“Ti ho visto lavorare coi ragazzi, sei una tipa tosta, complimenti”.
“Grazie… sarà il mio nome…”.
“Perché?”.
“Hundetu il lingua Oromo, quella che si parla nel mio villaggio, significa ‘fondamenta’”.
Una parola scolpita nella pietra. E su quella pietra, davanti alla solidità di quella intuizione, Steppa scivola nell’oblio per lasciare il posto a “Stivo”.
Lui e Hunde non hanno ancora pronunciato i voti perpetui. Ogni anno rinnovano il loro cammino, che ora potrebbe essere a un bivio. Qualche sera prima, in macchina, hanno preso quello per Kampala, in Uganda, ed è nato un bellissimo pomeriggio in cui hanno parlato di tutto.
Questa sera, però, è diverso. La madre superiora ha indirizzato Hundetu a Nairobi per diventare infermiera. Stivo deve tornare là dal suo formatore per riferire del suo periodo di riflessione.
“Hunde, io voglio vivere una vita autentica, senza maschere, senza sovrastrutture”.
“Lo voglio anch’io, Stivo. Ora lo so anch’io. Qualcuno ci ha unito e…”
“… e finalmente so cos’è la felicità”.
Nella suggestiva notte africana, sotto un manto di stelle ammiccanti, l’autobus che da Kampala procede sferragliando verso la capitale del Kenya culla l’inizio di una nuova storia.
Ormai è limpido: Stivo e Hunde si sono innamorati. Non rinnovano i voti temporanei e cominciano a progettare la loro nuova vita insieme. Lei ritorna in Etiopia e frequenta Scienze Infermeristiche in un ospedale missionario come studentessa laica, mentre lui trova un lavoro come coordinatore di progetti di sviluppo per una organizzazione tedesca sui monti Nuba, in Sudan. Là, dominando il paesaggio sottostante, Stivo scruta l’orizzonte assaporando il suo futuro. Hunde è stata l’unica donna della sua vita. E vuole che lo sia per sempre.
Appena possibile vola in Etiopia per organizzare il matrimonio, dal quale nascono subito Kenna, che in lingua Oromo significa “dono”, ed Ebba (“benedizione”). La famiglia vive a Pieve di Cento, nel paese di Stefano, che ora lavora come insegnante di religione, ma che “la voce” sta chiamando ad una nuova avventura.
“Hunde, o lo facciamo adesso o non lo facciamo più”.
“Va bene, Stivo. Ti amo”.
“Ti amo anch’io”.
Stefano dà fondo ai suoi risparmi per comprare un mantecatore della Carpigiani, la moglie si iscrive ad un corso a Castelfranco per diventare gelataia e con i loro figli Kenna, di 4 anni, ed Ebba, di 1, si imbarcano sul primo volo per l’Etiopia.
Atterrati ad Addis Abeba raggiungono Auasa, dove nei primi tempi vivono in due stanze di una pensione. Poi comprano un appezzamento di terra per costruire la loro casa e affittano un locale in cui realizzare il grande sogno comune: aprire una gelateria!
La novità ha un successo insperato. La “Tasso Italian Ice Cream” produce l’unico gelato di tutta Auasa e per di più in modo completamente artigianale. Il locale si ingrandisce diventando un fast food in cui servono anche pizza, hamburger, qualche piatto di pasta e naturalmente… lasagne.
Stivo e Hunde sono benedetti. Chi li ha fatti incontrare regala loro il terzo figlio, Mati, che in lingua Oromo vuol dire “famiglia”.
E’ questo, in fondo, il significato più autentico della felicità.
Damiano Montanari
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