Certe emozioni corrono in punta di piedi, anche se i tendini sono rami di ebano e il dolore annebbia la vista come la sabbia calda alzata dal Khamsin. Certe giornate scorrono come le acque del Nilo, apparentemente una uguale all’altra, nascondendo però una forza e una ricchezza inaspettate. Certe persone nascono con un sogno e nulla può impedire loro di realizzarlo, neanche una malattia che azzoppa la voglia di continuare a vivere. Omar Hanafi è una di queste, perché ha sempre creduto che un giorno avrebbe realizzato ciò che lo rende felice: diventare un giocatore di calcio.
La sua storia prende forma sotto la Mole Antonelliana, impastata tuttavia della cultura e del fascino egiziani. Per Mohamed e Hoda, i suoi genitori, l’Italia è stata un’opportunità, la terra in cui seminare speranze e regalare al mondo i loro due figli, Dina e Omar.
I bimbi crescono sani e vivaci, intrisi di entusiasmo e vivacità, mentre Mohamed suda in fabbrica per provvedere il necessario alla sua famiglia.
Omar ha occhi profondi che guardano avanti, dritti verso la meta. Ma procede lento, un passo alla volta, in punta di piedi.
“Non è niente, sono solo capricci. Ditegli di camminare come fanno tutti gli altri bambini!”.
I consigli dei medici sono tutti uguali, ma il piccolo Hanafi proprio non ce la fa ad appoggiare i piedini come i suoi amici.
La mamma e il papà non credono ai falsi oracoli e continuano a cercare risposte, fino al giorno in cui varcano la soglia di un bianco ambulatorio dell’Ospedale Regina Margherita.
Lo specialista ha lo sguardo serio ed il tatto di chi non sa come comunicare la gravità della notizia.
“Mi dispiace. Vostro figlio ha una forma di distrofia muscolare. Ma possiamo provare a sottoporlo a un intervento chirurgico di allungamento dei tendini di Achille. Forse potrà camminare meglio e magari riuscire a correre”.
Un calcio alla paura è quello che ci vuole; per quello al pallone serve ancora un po’ di tempo. Sempre che…
L’odore del cloroformio. I camici e le mascherine verdi. Il freddo della sala operatoria. Poi scende il buio sul piccolo Omar che depone i suoi sogni nelle mani dei chirurghi.
I genitori, in trepidante attesa, si stringono la mano e pregano Allah, che protegga il loro bambino.
Tutto va bene. O almeno questo è quanto risulta.
“Una settimana di gesso e poi vostro figlio camminerà di nuovo”. Quelle che scendono sono lacrime di gioia, non di dolore. A sentirlo è Omar, costretto sulla sedia a rotelle. Anzi, a dire il vero sente poco o niente.
“E’ strano, siamo sicuri che tra sette giorni mi alzerò da qui?”.
“Stai tranquillo, i medici ce lo hanno assicurato”.
Ma la luna resta ferma a guardare Omar immobile per tante, troppe notti. Le settimane diventano mesi, fino a quando, dopo due lunghi anni, le speranze cominciano ad appassire.
Hoda, il cuore pesante e gli occhi gonfi, vuole continuare a vivere, lo deve alla sua famiglia.
Nel periodo natalizio i centri commerciali di Torino si vestono a festa e quello dove entrano Omar e i suoi genitori non fa eccezione.
“Ti piace questo maglione?”.
“Sì, ti starebbe bene”.
La normalità si conquista anche con i piccoli gesti.
Omar osserva la scena in un angolo, ancorato alla sua sedia a rotelle.
“Ma cosa…?”.
Un pizzico, una puntura lungo la schiena. Poi un’altra e un’altra ancora. Che succede?
Un’onda di energia attraversa la colonna vertebrale del ragazzino, mentre una voce si fa largo nella mente: provaci, è il tuo momento.
Alzati. E cammina.
“Mamma! Mamma! Guarda! Sto camminando!!!”.
“Omar!!!”. Hoda urla e corre in lacrime ad abbracciare il figlio. Anche la commessa si commuove, mentre raccoglie il maglione caduto alla signora.
E’ un miracolo! O forse no?
La mattina dopo Omar è carico, non vede l’ora di correre dai suoi amici; alza le coperte e prova a scendere dal letto, però le gambe non rispondono.
“No… non può essere…”. E invece è proprio così.
“Mamma! Papà!”. Questa volta il grido non è di gioia, ma colmo di disperazione.
“Perché!? Perché non riesco più a camminare?”.
“Non lo sappiamo Omar, non lo sappiamo…”, rispondono i genitori in un abbraccio consolatorio.
Nemmeno i medici hanno risposte e allora non resta che affidarsi al divino; bisogna avere fede…
“Allah, aiutami…”.
La preghiera nasce e cammina con reverenza, in punta di piedi… un passo alla volta…
Trascorrono i mesi e Omar riprende a camminare, eppure non riesce ancora ad alzarsi da terra.
Questo non gli impedisce, però, di seguire i suoi genitori in un viaggio a Il Cairo.
C’è sempre una prima volta e il piccolo Hanafi non è mai stato a pregare nella moschea della capitale egiziana. E’ il nonno, sempre pronto a vegliare su di lui, ad accompagnarlo e ad aiutarlo a sedersi per terra.
“Allah sei grande… Allah aiutami…”.
La richiesta è ritmica, insistente, rassicurante. Con un senso di pace speciale Omar si gira su un fianco e… si alza…
E’ un sogno?
Forza… un passo davanti all’altro… forza… la camminata è più veloce… ora addirittura corre, corre dritto fino a casa!
“Mamma! Papà! Guardate! Mi sono alzato da terra da solo e… ho corso!”.
Omar si siede sul pavimento, ma non riesce ad alzarsi. Come è possibile?
Nella sua testa comincia a insinuarsi un pensiero: sarà la sua forza.
“In fondo sono fortunato. Posso camminare e so che un giorno riuscirò anche a giocare a calcio!”.
E chissà, magari a incontrare Salah, attaccante del Liverpool dal sangue egiziano; da sempre è l’idolo del giovane Hanafi, che intanto cresce, studia e, a 17 anni, fa l’incontro che cambia la sua vita.
Su Facebook scorge un post degli Insuperabili, realtà che permette a ragazzi diversamente abili di giocare a calcio.
Omar non ci pensa due volte, scrive al responsabile Davide Leonardi, che risponde in un attimo.
“Grazie di averci contattato. Ti aspettiamo per il primo allenamento!”.
E’ l’inizio di una nuova vita. “E’ questo il vero miracolo”, pensa il giovane Hanafi, che corre “come se facessi una maratona”, ha piedi buoni e ha fatto del suo punto debole la sua forza.
“Accettare la disabilità è un vantaggio, non mi pesa. Non mi sono mai arreso, nemmeno quando nessuno sapeva darmi risposte”.
E il rapporto con gli altri ragazzi diversamente abili? “Siamo tutti qui per lo stesso motivo: giocare a pallone e stare bene insieme. Tra noi non vedo alcuna differenza”.
Oggi Omar, che nel frattempo ha conseguito la patente di guida, è un ragazzo felice. “A 22 anni mi sento fortunato. Devo ringraziare i miei genitori e gli Insuperabili, la mia seconda famiglia: entrambi mi hanno regalato un sogno”.
E ora? “Vorrei diventare calciatore paralimpico professionista. La strada è lunga, ma sono determinato”.
Un passo alla volta. Senza fermarsi più.
Damiano Montanari
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