Esiste un senso, un senso a questa vita, anche se con questo dolore, un senso non ce l’ha.
Esiste un senso, un senso a questa storia, perché questa storia, di lacrime e sangue, di coraggio e dedizione, un senso ce l’ha. Eccome se ce l’ha.
Pasqua dagli occhi caldi e dal cuore gonfio di umanità è una infermiera in prima linea.
Non conosce soste; mangia, prega, ama. Corre.
E si divide tra le sue due famiglie: quella in ospedale, composta da colleghi e amici, e quella che ha costruito per la vita, con il marito Cosmo Damiano e i tre figli Arianna, Alessia ed Emanuele, di 10, 7 e 4 anni.
Pasqua dal viso stanco quando torna a casa, dopo turni infiniti di giorno e di notte, ha la voce increspata. Abbraccia le emozioni come i neonati di terapia intensiva cardiochirurgica; li solleva dolcemente, con il carico di tubicini e cateteri venosi, e li culla fino a farli calmare, fino a farli addormentare.
Pasqua dal cuore grande e dal sorriso aperto, ormai da qualche tempo, convive col dolore.
“Bonni”, Sergio Bonazzi, l’infermiere bolognese che a 59 anni è morto a causa del Covid-19, è stato rapito per sempre da un virus subdolo e letale. Era un maestro, un esempio, un vero amico.
“Noi infermieri – racconta Pasqua Zaza – siamo un po’ tutti Sergio Bonazzi. Quando ho iniziato a lavorare nel reparto di Terapia Intensiva Cardiochirurgica Adulti e Pediatrica qui al padiglione 23 del Policlinico Sant’Orsola di Bologna lui già c’era. I suoi pazienti sono quasi sempre bambini.
Sergio è una persona molto solare, positiva, molto buona. Non dice mai una parola fuori luogo ed è uno che spiega, con il sorriso sulle labbra, senza arrabbiarsi mai”.
Sergio vive. Nel cuore e nella mente di Pasqua.
“Lo so, parlo di lui al presente. Sto facendo un po’ fatica ad accettare la sua morte. Ma la sua eredità rimane. Forse io sono una delle poche persone che al lavoro lo conosce da tanto tempo; non siamo rimasti in tanti. Qui in terapia intensiva c’è sempre un grande ricambio, arrivano di continuo ragazzi nuovi, spesso neolaureati. A loro non faccio solo formazione trasmettendo qualcosa di mio; dono i segreti che Sergio ha insegnato a me”.
Come il “fagottino di Bonni”.
“Lo chiamiamo così, con il soprannome che avevamo dato a Sergio. Consiste nel prendere il neonatino e nell’avvolgerlo con le lenzuola in modo tale che si senta abbracciato. Sono cose che impari con la pratica, non sono scritte sui libri”. Neanche l’amore di Pasqua. “Non è semplice tenere in braccio un bimbo in terapia intensiva. Devi stare attenta, quando li sollevi, che involontariamente non si tirino nè i drenaggi, né qualche altro accesso medicale; sono tutti pieni di fili. Poi cerco di darli in braccio alla mamma. La terapia non è l’unica medicina: i bambini hanno bisogno di sentire il calore e la presenza della madre; li aiuta a gestire il dolore”.
Poi è arrivato il Covid-19 e tutto è cambiato. Niente più baci e abbracci salvifici; la gratitudine e la solidarietà, la paura e la gioia, filtrate da una mascherina; le emozioni sgorgate dagli occhi; i sacrifici e le vite a repentaglio per aiutare i malati.
“Nella prima ondata della pandemia molti miei colleghi, anche giovani, si sono infettati. Non sono state persone superficiali, hanno prestato molta attenzione a non contaminarsi, ma questo virus è terribile. Nella seconda ondata una mia carissima collega è a casa, ancora positiva, con due bambini piccoli. Io avevo e ho tanta paura del Covid-19, soprattutto ho paura di infettare mio marito e i miei tre figli piccoli. Vorrei che chi ora discute o si arrabbia pensando ai cenoni per le feste o all’apertura delle piste da sci conoscesse le storie di noi infermieri.
E’ fondamentale che tutti indossino le mascherine correttamente, non solo per proteggere loro stessi, ma anche e soprattutto per proteggere gli altri.
Per me metterla è un grande sacrificio, perchè sono un gran chiacchierona e con la ffp2 mi si forma la condensa soltanto respirando. Ma è giusto ed è necessario farlo”.
Gli infermieri in prima linea come Pasqua hanno lividi nel cuore e sulla pelle.
“In servizio indossiamo dei tutoni collegati a dei motorini che devono garantire un ricircolo di aria. Sono marchingegni pesati e molto faticosi da portare, soprattutto nelle manovre lunghe, come quando devi aiutare i medici ad intubare e ad incanulare una arteria.
Faccio questo lavoro da quattordici anni e posso dire che oggi il peso fisico e psicologico è triplicato. Sono ritmi insostenibili. Un giorno sono stata soccorsa da un collega, stavo svenendo.
Quando ci svestiamo siamo sempre aiutati. Dobbiamo prestare la massima attenzione a non toccare nulla di quanto è venuto a contatto con i pazienti Covid.
Ho visto colleghe con i lividi sulle anche non lamentarsi mai, piangendo io per loro, perché sono sempre stata così, mi sono sempre messa nei panni degli altri”.
Adesso è necessario aprire gli occhi e guardare la realtà così com’è.
“Vorrei che chi ora afferma che il virus non esiste o che non siamo in emergenza, pensasse a quello che proviamo ogni giorno. Tutte le mamme “normali” sono a casa durante le feste. Noi sacrifichiamo le nostre famiglie, con lo stesso stipendio di un impiegato di azienda, per portare conforto ad altre famiglie, ad altri bambini.
Molte volte non ci si immedesima a sufficienza in chi è nella sofferenza. Guardare una persona intubata, non è come guardare un quadro al museo. In quel letto ci sono una madre, un padre, un marito, una moglie, un figlio.
Dopo avere sempre lavorato negli ultimi tre capodanni, non vedevo l’ora di prendermi le ferie per scendere in Puglia dai miei genitori. Ora non è possibile. Noi infermieri non abbiamo diritto a stare con le nostre famiglie come tutti?
Durante il lockdown noi mamme infermiere abbiamo lavorato il doppio. Prima in ospedale e poi a casa, aiutando i figli con le lezioni online.
Se in estate non avessimo abbassato la guardia, la seconda ondata non ci sarebbe stata e avremmo potuto vivere un Natale normale, accanto ai genitori e ai nonni, che non vivranno per sempre.
Voglio dire una cosa a chi protesta contro lo Stato perché sta imponendo di portare le mascherine ai nostri figli. Noi ci stiamo togliendo dei pezzi di vita che non torneranno più. Un piccolissimo sacrificio per un bambino è fondamentale per tutelare i nonni. Oggi non ce n’è uno che non abbia un problema cardiaco o respiratorio. Non ci dobbiamo mai stancare di ripeterlo. La goccia che scende di continuo scava nella roccia”.
Ma allora qual è il senso di questa vita, il senso di questa storia?
“Il lockdown ci ha unito come famiglia di colleghi in ospedale e come famiglia cristiana a casa.
Al lavoro ci siamo sostenuti a vicenda, condividendo i pesi quotidiani. Con mio marito e i miei figli non ho mai parlato di quanto di brutto vedevo in reparto. In tanti anni non era mai successo. Cercavo solo di parlare di cose belle, facendo uscire dai miei pensieri il “sacco nero”, quello in cui vengono infilate le salme.
Ogni volta che è morta una persona che assistevo, mi sono fermata davanti al suo corpo e ho recitato un Padre Nostro. In fretta, perché ora con il Covid-19 devi stare il meno possibile a contatto con gli infetti. E’ disumano”.
Per questo serve ricorrere anche al divino.
“La mia famiglia e la preghiera mi hanno salvato. Senza queste due cose, non sarei riuscita e non riuscirei ad andare avanti”.
Così Pasqua ha trovato un senso, un senso a questa vita, un senso a questa storia, perfino un senso a questo dolore, anche se apparentemente questo dolore un senso non ce l’ha: è la forza dell’amore, che nessun virus potrà mai riuscire ad intaccare.
Damiano Montanari
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Grande cuore.
Pasqua dolce.
Bellissimo articolo ❤️❤️ Grazie Pasqua
Non ci sono molte parole da aggiungere se non tanto rispetto e grazie per l’operato di personale ospedaliero come lei. E a volte una certa incredulità nel vedere ancora persone così, con una abnegazione, senso del dovere e senso dell’ALTRO che ti pare quasi impossibile💖💖💖
Cara Pasqua grazie di esistere e di essere così come sei, spero proprio che il tuo esempio venga seguito da altri colleghi e non solo. Guardare te e la foto della tua famiglia trasmetti serenità e fiducia…un abbraccio immenso e auguri di ogni bene😊